TRA LA FOLLA

©Vincenzo de Falco

– Mario!

Mio dio, com’è vecchio!
Quasi non lo riconoscevo!
Quando l’ho visto, l’ultima volta?
Quasi dieci anni fa...
Certo, dieci anni sono tanti. E sono passati anche per me.
Però io...
Insomma, lui è irriconoscibile!

– Mario!

Mi fa quasi impressione.
È così pallido, si aggira tra la folla dell’una come se non sapesse dove andare.
E se veramente non sapesse dove andare?
Ha uno sguardo così smarrito...
Ma sarà lui?

– Mario! Qui, da questa parte!

Uffa, che folla!
Ma dove va, tutta questa gente?
Non riesco a farmi largo – Scusi, permesso, scusi – e lui che non si volta, che sia diventato sordo?
Fendo una muraglia di carne, nuoto fra giacche sudate, annaspo, inciampo, cado, mi rialzo, lo raggiungo.

– Mario!

Gli metto una mano sulla spalla, e gli sorrido.
Si gira.
Mi guarda.

Ebete.

– Dice a me?

Dio mio, non mi ha riconosciuto!
Eppure, abbiamo passato quindici anni insieme, nello stesso ufficio, come può essere?
E se avessi sbagliato io?

– Mario... Tu sei Mario Balestra, vero?

Ha gli occhi liquidi, i capelli radi, la carnagione giallognola. Sembra un cane. Uno di quei cani che all'inizio ti fanno pena, quando li vedi così soli, affamati, persi.

Poi ti fanno schifo.

Non avrei dovuto chiamarlo.
Non mi risponde, i suoi occhi sono liquidi, liquidi e vuoti.

– Sono Normando, Normando della contabilità, non ti ricordi?

Accenno un altro sorriso.

– No.

Mi viene da piangere.
Un uomo grande e grosso che piange.
In mezzo alla strada.
Sotto i portici.
All’una.

Non piango.
Fuggirei.

No.
Mi fa ancora pena.

– Ma allora è vero... non volevo crederci, me l’avevano detto, sai?, ma pensavo fosse una leggenda, una di quelle voci che camminano e crescono da sole, ma non trovi mai nessuno che possa confermartele direttamente... E invece è vero, vero?

– Cosa, è vero?

Ha la voce di un bambino che piange.
Ma non piange.
E non è un bambino.
È vecchio, dio com’è vecchio!

– Che quando... sì, insomma, quando uno se ne va...

Se ne va?

– Mario, smettila, perdìo!

Sto perdendo la pazienza.
Quasi quasi lo picchio.
Gli assesto un pugno in mezzo alla faccia.
Pùm!
Lui cade, io me ne vado, qualcuno mi guarda, nessuno si ferma.
Quasi quasi lo faccio.

Non lo faccio.

– Mario, basta con questa commedia. Tu sei morto otto anni fa, è vero?

– Sono morto?

Perché risponde alle mie domande con una domanda?
È insopportabile.
Ma gli voglio ancora bene, ecco perché me ne sto qui a parlare con lui.

– Sì, sei morto, durante un viaggio in Messico, quando sei andato in pensione, e hai detto "La liquidazione me la voglio godere tutta, tanto non ho famiglia", e sei partito per Acapulco, e sei morto come un fesso, di infarto.

– Infarto?

– Sì, infarto, o ictus, o un colpo apoplettico, o quel che diavolo era, e ti hanno riportato qui in una cassa di zinco, e c’ero io, all'aeroporto, io e Maletti, e ti abbiamo organizzato il funerale, abbiamo fatto la colletta, noi che lavoravamo ancora...

Perché lo sto aggredendo?
Dopotutto non è altro che un povero morto, che vaga tra i vivi senza sapere perché, e senza più memoria.
Perché i morti non ricordano, è vero, è disperatamente vero, triste e vero, e tra poco io me ne andrò, e lui non ricorderà d’avermi visto, e non ricorderà d’aver vissuto, prima di essere morto.
E ora capisco che è giusto così, e non è una leggenda, è vero, i morti non ricordano, sarebbe troppo triste, per loro, più di quanto è triste per noi vivi ricordare loro.

– Non ricordi proprio niente?

– Cosa dovrei ricordare?

Sorride, e gli si tende la pelle cadente.
E gli occhi si fanno piccoli, meno liquidi, più vicini.

– Ricordi il sole?

– No.

– Il cielo?

– No.

– Ricordi la signorina Ileana dell’Ufficio Acquisti?

– No.

– Ti ricordi di Mario, Mario Balestra, della contabilità, che andò in pensione, e partì per un viaggio in Messico, e non tornò più?

Mi guarda.
Non sorride più.
Non mi guarda più.
Mi guarda attraverso.
La mia mano ancora sulla sua spalla.
Fredda.
Si gira.
Se ne va.
La mia mano cade giù.
Lo vedo allontanarsi, con quell’aria smarrita, da cane bastonato.

– Mario!

Lo inseguo.
Un guizzo.
Altri fra me e lui.
Li scavalco.
Gli sono di nuovo vicino.
Inizia a scomparire.

– Dice a me?

– Mario, ti posso abbracciare?

Non risponde.
Ma si ferma.
Lo abbraccio.
Sta scomparendo.
Diventa evanescente.
Anzi, piccolo.
Piccolo piccolo.
Un’ombra.
Una piccola ombra sotto i portici.
Abbraccio me stesso.
Una donna mi guarda.
Ha le mani ingombre di sacchetti della spesa, e mi guarda.
Guarda quest'uomo grande e grosso.
Un uomo grande e grosso che piange.
In mezzo alla strada.
Sotto i portici.
All’una.


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Dal 28.10.00: